La pipì fuori dal vaso di Beppe Sala sullo smart working

No, non è stata una lunga vacanza, ma cosa diventerà il lavoro agile dipende dalle scelte che facciamo oggi.

Finita l’emergenza, la modalità di lavoro che ci ha consentito di sopravvivere durante i lockdown è diventato oggetto di acceso dibattito: può essere un bene.

Ed è un invito al dibattito anche quello lanciato oggi dal Sindaco Sala, sebbene non ne condivida appieno alcuni passaggi.

Ma la discussione può essere fruttuosa.
Personalmente sono sempre stata una supporter del Lavoro Agile (meno dell’home working) basandomi su evidenze e dati e non solo su opinioni. Questo sin dai tempi in cui lo Smart working veniva dai più considerato una faccenda “da femminucce”, ovvero destinato a lavoratrici con carichi di cura, in equilibrio tra vita e lavoro.
Proprio per poggiare la discussione su evidenze empiriche il Comune di Milano ha condotto una survey somministrata a 6.828 lavoratori agili nel periodo dal 17 al 30 aprile in forma volontaria e anonima.

All’indagine ha risposto quasi l’85% dei lavoratori coinvolti pari a 5.795 questionari restituiti (qui i dati).

Presenteremo i risultati nel dettaglio la prossima settimana ma possiamo anticipare che l’apprezzamento verso questa modalità di lavoro è stato altissimo, sebbene in una condizione eccezionale.
Sul portale open data abbiamo pubblicato degli indicatori di produttività, basati sulle interazioni tra i team di lavoro avvenuti in piattaforma.

I numeri sono significativi, anche se parziali rispetto alle reali interazioni avvenute pure su altri canali.
Anche i commenti ricevuti sul documento Milano2020 indicano il Lavoro Agile come oggetto prominente nell’interesse dei cittadini milanesi.

Questa modalità di lavoro viene vista come opportunità oltre l’emergenza Covid-19, come occasione di innovazione organizzativa, risparmio di tempo e di emissioni, di crescita e sviluppo professionale, come opportunità di benessere e conciliazione.

Mentre i punti critici riguardano soprattutto la dotazione tecnologica, il cosiddetto diritto alla disconnessione, la programmazione e il monitoraggio dei risultati.
Al momento gli schieramenti tra i supporter e i detrattori del lavoro agile sono più o meno gli stessi del pre-covid.

Ovvero chi pensava che i risultati di un’organizzazione pubblica e privata si misurano prevalentemente in orari di lavoro, presenza in ufficio e controlli chiede che “si torni a lavorare”.

Chi invece ha sempre enfatizzato il valore di organizzazioni basate sulla fiducia, sulla condivisione di obiettivi e risultati, su performance che migliorano proporzionalmente alla qualità del lavoro e della vita, spera che questo sia l’inizio di una rivoluzione.


Da parte mia spero in un’occasione per fare dei passi avanti verso un’organizzazione del lavoro e della città più vicina alle esigenze delle persone e dei lavoratori.

Sulla base di dati ed evidenze.

Per quanto riguarda noi, abbiamo cominciato a raccoglierne alcuni, ed altri ne forniremo nei prossimi giorni. Sono dati che ci dicono una cosa semplice e forse di buon senso: in molti ambiti il lavoro agile non può essere la modalità esclusiva di erogazione della prestazione lavorativa, ma un suo utilizzo massivo, fuori dalla emergenza, se ben regolato e contrattato, migliora la vita delle persone e anche l’organizzazione della città.

Testo di Cristina Tajani

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